Grande solidarietà contro ogni discriminazione Una lettera di don Luigi Ciotti sul Gay Pride Day Gruppo Abele Torino Torino, 3 luglio 2000 Cari amici, sono, purtroppo, impossibilitato ad esser con voi nel momento in cui ci si interroga insieme sul grande tema dei diritti e delle discriminazioni che ancora oggi subisce chi vive la condizione omosessuale. Non voglio però mancare al momento "alto" che ci è offerto da questa opportunità ed è per questo che provo a consegnarvi poche e disordinate riflessioni. Da sempre, personalmente e come Gruppo Abele, penso che una Democrazia che non tuteli e promuova i Diritti Umani non si presenti come vera democrazia. Quest'ultima significa "governo del popolo", ovvero Uguaglianza dei rapporti sociali, dei diritti civili e delle opportunità di espressione e di partecipazione alla vita sociale di ogni persona che forma quell'eterogenea e multiforme comunità di singoli definita popolo. Detto in altri termini: non è democratico un Paese che non rispetti le minoranze e i loro diritti sociali, culturali, di espressione, di dissenso, di partecipazione alla vita sociale e di organizzazione. Non solo: la Democrazia di una società è tanto più alta e più vera quanto più sono tutelate, riconosciute e valorizzate le minoranze (siano esse tali per ragioni politiche, etniche, culturali, religiose, sessuali od altro ancora). Significa intrecciare così profondamente i nostri diritti con i doveri al punto da riconoscere come preciso dovere - delle istituzioni pubbliche o private e di ogni cittadino - il rispetto del diritto dell'altro, di ogni altro. Solo così il "diritto" del singolo cessa di essere rivendicazione individuale o tutela di un privilegio per diventare tassello indispensabile di una giustizia più ampia: capace di tenere insieme i tanti beni comuni che compongono il convivere nella stessa comunità proprio per questo definita "civile". Purtroppo sono ancora tante le timidezze, le prudenze e le tortuosità che si frappongono su questo sentiero. La limpidezza dei ragionamenti e delle affermazioni di principio diventa così - sul piano della pratica - non trasparente, invalidata ed incapace di diventare efficace. Credo che anche rompere questi meccanismi resti preciso dovere della partecipazione democratica. Significa abilitarsi al compito - a volte davvero scomodo e controcorrente - della denuncia, del coraggio della parola e della pazienza umile ma tenace che ci è chiesta dal prezioso servizio della "resistenza", perché non si perda quanto già acquisito e perché si possa consegnare ai nostri figli un mondo più umano perché più giusto. Siamo chiamati perciò a "resistere" perché mai nessuna persona venga liquidata con una definizione, con una etichetta o – peggio ancora - identificata con un ''problema". Siamo chiamati a costruire - insieme - quelle condizioni perché i principi morali che guidano le diverse componenti della nostra società non diventino affermazioni "lontane" o "ostili" nei confronti delle persone che cercano reciprocità, rispetto e giustizia. Non dimentichiamolo mai perché è un rischio per tutti: troppo coinvolti dal difendere le nostre tante identità, ci si dimentica di incontrare l'altro, quell' "Altro" che non può mai essere inteso come minaccia per la propria identità (culturale, politica, di fede religiosa...), ma solo e sempre come compagno di viaggio senza il quale il cammino non ha senso, senza il quale - per chi condivide i riferimenti al Dio di Gesù Cristo - il Vangelo non diventa Parola che libera e che salva. Non ci si può abituare alle tante discriminazioni che ogni giorno ci affiancano. L'impegno per superare alcune forme di esclusione sociale non può perdere di vista il più ampio orizzonte di ingiustizie che feriscono le nostre democrazie ed il mondo intero. Proprio perché la verità è sinfonica, siamo chiamati - sempre - ad uno sforzo a 360 gradi; ci è chiesto, in altre parole, di unire le nostre forze e di uscire dai nostri recinti perché l'impegno degli uni tomi a beneficio di tutti e non solo dei diretti interessati. Solo a queste condizioni riusciremo ad aggredire, con l'elemento superficiale che nega democrazia e giustizia, anche le cause sociali, culturali e politiche che mantengono quelle condizioni di non uguaglianza nei diritti e nei doveri. Un'ulteriore riflessione. E’ un dato inevitabile: discriminazioni, diseguaglianza e ingiustizie creano, non poche volte, "rabbia e rancore" in chi subisce queste condizioni. Non confrontarsi con questi dati è certamente miopia, ma anche superficialità colpevole di chi non prova mai a mettersi nei panni dell'altro, di colui che è vittima e che paga sulla propria pelle discriminazioni, giudizi affrettati e negazioni di speranza. Dobbiamo fare in modo, di conseguenza, che l'impegno per una società più attenta ai diritti di ognuno impari anche a confrontarsi con questi sentimenti di "rabbia", di "rancore" e di sofferenza comunicate con le uniche parole che si riescono a trovare. Vuoi dire spendersi concretamente perché l'errore degli uni non legittimi altri nuovi errori; significa rompere quella spirale viziosa che incatena gli uni alle ingiustizie degli altri in una logica vendicativa incapace di generare il nuovo della giustizia. Solo se sapremo affiancare "alla rabbia dell'ingiustizia" la forza della non- violenza - paziente, umile, tenace e aperta alla schiettezza di un parlare che sa dire "si, si, no, no", (Matteo 5,37) - saremo in grado di costruire quella casa comune capace di rileggere ogni diversità come ricchezza per fare della convivenza una vera scuola di reciprocità. Con questo spirito scelgo, ancora una volta, di stare dalla parte di chi "ha fame e sete di giustizia" in un percorso che vede credenti e laici impegnati insieme per una società più a misura di uomo e per una chiesa sempre più obbediente al suo Maestro e sempre più capace di saldare l'evangelizzazione alla capacità di ascolto, di accoglienza di ogni persona e di difesa dei diritti di chi è più calpestato. Quando, nel settembre 1983, Ferruccio - insegnante - decise che gli era impossibile continuare a vivere a causa delle umiliazioni e discriminazioni - continue e violente - determinate dalla sua condizione omosessuale, decidemmo che l'impegno del Gruppo Abele sulla questione omosessuale doveva crescere e aprirsi a nuovi e più incisivi segni di speranza. Accogliere al nostro interno un gruppo di omosessuali credenti e permettere loro gli spazi necessari per il funzionamento ordinario della loro associazione (Associazione culturale "Davide e Gionata" ), ci apparve come doveroso: un piccolo contributo per costruire amicizia, collaborazione e per rompere separazioni tra impegni diversi accomunati dall'unico desiderio di una società — finalmente - "senza muri", in cui "non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna" (Galati, 3,28). Per queste ragioni oggi vogliamo continuare il cammino: per perseverare in quel percorso già intrapreso da alcuni (laici e credenti) e perché crescano ancora quanti desiderano vivere senza prevaricazioni, senza "muri" che separano e che allontanano e senza le violenze che nascono dalle ingiustizie e che a volte si alimentano dalle stesse ingiustizie. Un forte abbraccio Luigi Ciotti |